SULLE TRACCE DEL SARAS DEL FEN
STORIA DI UN CACIORICOTTA PIEMONTESE
L'annuo prodotto del butirro è calcolato a dodici mila rubbi; e quello
del formaggio a rubbi mille e seicento. I caci che si fanno in grande quantità
col latte di vacca, delle capre e delle pecore nelle valli di Luserna,
s.Martino e Pragelato, riescono assai buoni, e si smerciano con facilità.
Goffredo,
Corografia e storia della città e provincia di Pinerolo, Tipografia
Marzorati, Torino, 1847.
Su queste Alpi pecore e mucche vengono
mandate a pascolare per tre mesi d'estate. Vari casolari e piccole capanne,
sparsi sui pendii delle montagne, fungono sia da caseifici che da abitazioni
per i proprietari e le loro famiglie. Per lo più essi sono costruiti in pietra,
ma di aspetto molto umile, e non si distinguono affatto quanto a pulizia. Essi
badano al bestiame nei ricchi pascoli che abbondano in questa regione, fanno il
formaggio con l'eccellente latte che le bestie producono e raccolgono erba e
muschio da usare come foraggio per l'inverno nelle Valli.
Henderson E., The
Vadois: comprising observation made durino a Tour to the Valley of Piedmont in
the summer of 1844, Snow, Londra, 1845
Qualsiasi
ricerca oggi muove i primi passi attraverso internet: un vero paradosso, se
pensiamo che, quando si tratta di prodotti tipici, siamo a caccia di qualcosa
che sta scomparendo, per cui il web ci offre al massimo uno "specchio
deformato" di informazioni raccolte qua e là a casaccio e in breve tempo,
sovente senza esplicitare le fonti, anzi piuttosto replicando curiose
"leggende" come quella della festuca che avrebbe avvolto i sarass
fornendo loro un particolare sapore: ipotesi sulla quale non solo ho trovato
pochi riscontri nella documentazione ma che non ha neanche fondamento
scientifico dal momento che risulta che la festuca al più svolga una funzione
assorbente. Lodevoli dunque tutti i siti internet dedicati ai formaggi ma poco
ci aiutano ad approfondire il discorso.
Trattandosi poi di formaggio, cioédi un
cibo tradizionalmente destinato alle mense dei poveri, seppur non disdegnato
anche in quelle di re e potenti, che raramente veniva utilizzato nella
preparazione di altri cibi, anche i ricettari di cucina deluderanno le
nostre aspettative. A riprova di tutto ciò basti citare La scienza in cucina
e l'arte di mangiar bene, l'opera più famosa dell'Artusi che, fatta
eccezione per il parmigiano grattugiato e la ricotta, e gli stranieri
"gruviera" e Emmenthal, ignora di fatto i formaggi.
Diventa
dunque fondamentale indagare, da un lato, il contesto etnografico di una
regione in cui quel formaggio è stato storicamente prodotto oppure si è
tipicizzato, facendo ricorso, laddove possibile, anche alla fonte orale, e
dall’altro costruirsi una bibliografia di riferimento, di autori che si siano
occupati direttamente, o indirettamente, di formaggi in epoche storiche il più
possibile lontane dalla nostra.
Per
noi è stata, ad esempio, fondamentale Summa lacticiniorum del 1477,
redatta dal medico vercellese Pantaleone da Confienza, considerata dagli
studiosi la più antica trattazione organica e sistematica conosciuta sui
prodotti di derivazione dal latte, non a caso definita da Irma Naso
"l'incunabolo della letteratura casearia europea, che si esprime per la
prima volta in forma di valutazione pertinente intorno ai singoli prodotti, al
loro aspetto esteriore, nonché alle caratteristiche organolettiche, con
un'aggettivazione ricca e calzante e con frequenti motivi di comparazione, sia
sul piano della qualità dei prodotti in se stessi, sia a livello dei metodi
usati per la loro confezione e conservazione".
Un
secondo testo che ritengo fondamentale è il lavoro di Anna Maria Nada Patrone, Il
cibo del ricco e il cibo del povero, pubblicato dal Centro Studi Piemontesi
all'inizio degli anni ottanta. L'autrice è infatti attenta non solo alla
dimensione economica e sociale dell'alimentazione, ma fornisce anche una
dettagliata catalogazione e descrizione degli alimenti nel medioevo: nel nostro
caso abbiamo attinto notizie dalle sezioni di classificazione del formaggio in
base alla qualità e alla terminologia (denominazione locale).
La
documentazione - e dunque anche la bibliografia - se appare tutto sommato ricca
per Medioevo e Rinascimento, si riduce drasticamente relativamente ai secoli
XVII e XVIII, per riprendere una sua consistenza nel corso dell'Ottocento,
grazie alla ricchezza di informazioni contenute nelle inchieste agrarie, in
particolare in quella promossa dal deputato della destra storica Stefano Jacini
alla fine degli settanta e redatta (1883) relativamente al Piemonte
dall'onorevole Francesco Meardi: all'interno di questa relazione abbiamo la
prima vera attestazione "ufficiale" del nostro prodotto con una
descrizione abbastanza puntuale delle sue fasi di lavorazione e delle località
valligiane pinerolesi in cui è particolarmente rinomato.
Sul
versante etnografico siamo stati particolarmente agevolati da una ricca
bibliografia di studi, frutto di una tradizione culturale consolidata, dovuta
non solo alla presenza di una classe dirigente protestante liberale attenta
alla conservazione della propria identità, ma anche ad una capillare diffusione
dell'istruzione elementare, che ha favorito la proliferazione di studi sulla
cultura alpina e lavori come quelli di Jean Jalla, Marie Bonnet e Teofilo Pons
che ci offrono informazioni sulla cultura e sulle tradizioni popolari di queste
vallate, ben maggiori e più dettagliate di qualsiasi testimonianza orale
raccolta in tempi recenti.
Etimologia
e antiche attestazioni della parola Sarass
Il
termine piemontese seiràs deriva dalle espressioni latine seracium,
seracius, seratium, e
dal francese sérai, séret o seracée (nella Savoia e nella Svizzera francese
si produce una ricotta vaccina o caprina chiamata Sérac)
e dall'italiano seracco che, secondo Irma Naso, indicherebbero una
specie particolare "di formaggio bianco e compatto, a forma di alto
parallelepipedo".
Ovviamente
seratium deriva da serum (in dialetto seràs), cioè il
siero di latte vaccino, residuo della lavorazione casearia, ovvero la parte
acquosa-salina del latte, privata di buona parte del suo grasso, con la quale
inizia ancora oggi la lavorazione del sarass. Nelle trattazioni di molti
autori il sarass viene spesso confuso con la ricotta: tale confusione è
legittima, data la grande affinità di lavorazione dei due prodotti, però, su un
piano strettamente etimologico può essere interessante notare che il termine
"ricotta" deriva dall'aggettivo latino recoctus, che indica la ricottura del siero
"che riscaldato alla temperatura superiore agli 80°C (con eventuale
aggiunta di sostanze acide) provoca la coagulazione dell'albumina e della
globulina contenute in esso": un etimo che nell'area piemontese ha avuto
scarsa fortuna, forse perché proprio nel serum, come vedremo risiedono
le peculiarità del prodotto alpino.
La
più antica attestazione del sarass è quella contenuta nella Miscellanea
Valdostana dello storico Ferdinando Gabotto, ove sono riportati i prodotti del feudo di Chatel-Argent a
Villeneuve (Val d'Aosta) relativi agli anni 1267-68: tra essi figura appunto un
sottoprodotto del formaggio denominato seras.
Dai conti dell'hotel Sabaudo sappiamo
inoltre che per l'Epifania del 1270 il Conte di Savoia ricevette in dono dal
castellano di Evian « II seracia putrefacta ». La precisazione
"putrefactus", scrive la Nada Patrone, “viene sottolineata
probabilmente per indicare il pregio di questo cacio, reso piccante e gustoso
da una giusta maturazione (cfr. sub voce « brocius »): probabilmente doveva
essere consumato su fette di pane tostato caldo, come ricorda Pantaleone da
Confienza per i caci della Valle d'Aosta, della Moriana e della Bresse (cfr.
sub voce) o, forse, preparato in « cibaria de pasta et caseo »”
Relativamente alla prima metà del Trecento
è poi il medico di origine pinerolese, Giacomo Albini, nella sua opera De
Sanitatis Custodia, ad offrirci un'ulteriore attestazione accompagnata
anche dalla segnalazione delle buone doti di digeribilità di questo formaggio:
“Serum autem vel seracium facilioris est digestionis quam caseus et minus nocet
stomacho nec est opilatius.”
Altre attestazioni bibliografiche meno
precise ma comunque relative al XIII e XIV secolo ci vengono ancora dal
Gabotto. Interessanti sono inoltre le informazioni contenute in una minuta del
notaio di Pinerolo Michele Nassapori (ritrovata in mezzo ai “Protocolli ducali”
conservati all’Archivio di Stato di Torino), relativa al XIV secolo, che indica
minuziosamente le merci circolanti sul mercato di Pinerolo e tra queste “caseum
aut seracium recentem vel veterem”. Una nota assai interessante perché
distingue bene il formaggio, dalla ricotta e dal nostro sarass, che denomina
appunto “ricotta stagionata”.
L'area di
origine
Tuttavia è solo con la già citata Summa
Lacticiniorum, e dunque alla fine del Quattrocento, che abbiamo le prime
precise notizie sulle caratteristiche del seirass e suoi luoghi di origine e di
produzione che sono sicuramente da rintracciarsi tra la val D'Aosta e le
vallate pinerolesi.
Secondo Irma Naso l'aumento del numero
di capi di bestiame, soprattutto dei bovini, nel tardo medioevo, avrebbe
determinato una sovrapproduzione di latte e pertanto una eccedenza dei prodotti
di derivazione che avrebbero decretato la diffusione del formaggio come
companatico nella pratica alimentare soprattutto dei ceti inferiori, ma, come
abbiamo visto anche sulle mense signorili.
Tra le zone che si distinguevano per
un'intensa attività casearia, figura nel trattato di Pantaleone da Confienza la
val d'Aosta, alla quale l'autore dedica ampio spazio soffermandosi sulle
produzioni di burro e sul gusto dolce e delicato dei caci valdostani, derivante
dalla varietà di erbe aromatiche di cui si nutrivano le mandrie.
Il nostro interesse per la Summa
scaturisce però nei passi relativi ai pascoli alpini della zona di Nus, a est
di Aosta ove l'autore afferma che venivano confezionati dei seracia,
bianchi, magri e compatti, di forma quadrangolare alti circa un metro.
Al
di là della forma e delle dimensioni sono le tecniche di fabbricazione che ci
inducono a pensare che più che di una ricotta, dovesse trattarsi di un vero e
proprio antesignano dell'attuale sarass: infatti, estratto il formaggio,
al siero di latte vaccino, veniva aggiunto un certo quantitativo di latte e di
siero acetoso, cioè di due giorni, e il tutto veniva messo in un
"masgonum", cioè un recipiente di forma imprecisata che doveva
fungere da caldaia, fino all'affioramento di alcune parti condensate che
costituivano appunto il prodotto desiderato. Al termine della lavorazione
veniva poi riposto in appositi stampi e poteva essere conservato anche due
anni, dopo essere stato salato oppure consumato fresco e poteva in ogni caso
essere consumato stemperandolo in acqua di rose e zucchero.
Che
l'aggiunta di latte sia una vera e propria discriminante del sarass rispetto
alla ricotta, sembra esserne consapevole lo stesso Pantaleone, che, da buon
assaggiatore ed estimatore di formaggi, rimarca anche la notevole differenza
che ne deriva per il palato rendendo questi seracia particolarmente gradevoli.
“Il siero lo si fa anche in Italia e nelle regioni piemontesi; ma ritengo non
uniscano latte, invero non sono così grandi né di tanta bontà.”
In altre parole, molto più di quanto
abbiano fatto gli studiosi, anche in tempi recenti, il nostro medico riconosce
alla ricotta un'ampia diffusione nell'area pedemontana (valli Cuneesi, Chieri,
ecc.) ma sottolinea che a Nus, a Coazze e in val Germanasca - citata per la
bontà dei suoi formaggi in un altro passo della Summa - la ricotta viene
prodotta con questa aggiunta di latte e questo la rende, oltre che più
gradevole, diversa da tutte le altre.
Diffusione
del Sarass nell'area alpina nord-occidentale
Gli studi di E.Rotelli, A.Nada Patrone
e di I.Naso sottolineano una forte circolazione di uomini, mandrie e formaggi
lungo le Alpi fin dal XIII secolo.
Alla luce di questo dato possiamo
pertanto provare a chiudere il cerchio che abbiamo aperto con l'etimologia
della parola seirass. L'area di origine del nostro
"cacioricotta" va correttamente collocata all'interno della Savoia:
le attestazioni di Pantaleone da Confienza concentrano l'attenzione sulla val
d'Aosta, ma l'etimologia della parola non ci deve far dimenticare che analoghe
lavorazioni si sono probabilmente registrate sul versante francese e svizzero e
vedremo che, almeno stando alle nostre fonti, qualcosa di simile, in qualche
vallone della Svizzera deve aver avuto analogo sviluppo.
Certo è che dalla val d'Aosta questo
tipo di lavorazione deve aver preso piede rapidamente anche in altre vallate,
almeno in quelle dove la tradizione casearia era radicata da secoli: e le
nostre attestazioni all'interno della Summa ci permettono di registrare
questo cammino fino in val Sangone (Coazze) e in val San Martino (attualmente
val Germanasca). Un percorso credibile se si pensa che la val Germanasca è una
valle collaterale della val Chisone che condivide ancora oggi con la val
Sangone l'ampio parco dell'Orsiera.
Archetipi
di conservazione nel fieno
Alla stagionatura dei formaggi
Pantaleone da Confienza dedica un ampio capitolo dal quale apprendiamo che che
i locali adibiti alla conservazione dei formaggi erano molti diversi da luogo a
luogo: alcuni privilegiavano la maturazione dei formaggi in ambienti secchi, a
volte caldi e fumosi; altri in grotte sotterranee umide e buie. Tuttavia per la
maggior parte dei formaggi l'immagazzinamento delle forme avveniva in locali
luminosi e dotati di una adeguata ventilazione. In questo caso essi - come
avviene ancora oggi - erano oggetto di molte cure anche durante la
stagionatura: rivoltamenti e trattamenti di superficicie (es. pulitura e
oliatura della crosta).
Al di là di questi dettagli generali la
cosa per noi interessante è però che, oltre alla consueta pratica di sistemare
le forme su tavole di legno, esisteva anche quella di adagiarle sulla paglia o
sul fieno oppure addirittura di avvolgerle nella paglia e poi sospenderle, come
spiega Irma Naso "con funi o ancora completamente affondate in chicchi di
segale, per evitare una evaporazione esagerata".
Dunque l'ambiente umido favorirebbe la
decomposizione del fieno sul quale venivano adagiate le forme e la crosta
risulterebbe ispessita da questi frammenti di fieno.
La tesi oggi più ricorrente per
giustificare la consuetudine di avvolgere i sarass nel fieno è quella di
agevolarne il trasporto: queste antiche forme di stagionatura, che hanno una
provenienza geografica molto vicina a quella del nostro cacio-ricotta, lasciano
invece aperta l'ipotesi che qualche margarius (malgaro) abbia tentato -
e solo nelle nostre valli - di riproporre un analogo metodo di stagionatura, da
applicare, anziché ai formaggi, proprio al sarass.
Nelle
leggende: l'apporto dei
Saraceni e delle donne
Sulle
origini delle tecniche di trasformazione dei formaggi sembra che, almeno per la
val Pellice, sia stato determinante l'apporto Saraceno. La presenza dei
Saraceni in questa zona è ampiamente attestata da una serie di toponimi ed è
probabilmente all'origine delle leggende relative alla presenza di "un
uomo selvaggio" che avrebbe introdotto in valle nuove pratiche casearie.
Vincenzina Taccia in proposito parla di una leggenda in cui “si
narra che, un tempo, viveva nella valle un uomo selvaggio, fortissimo ed
astuto, ma terribilmente timido e schivo di contatti umani. Di notte egli si
avvicinava all'abitato per osservare, non visto, una fanciulla di cui si era
perdutamente innamorato.
Spiandolo
a loro volta i nativi lo videro rivoltare la terra e gettarvi i semi, non solo,
ma videro anche come quello trattasse il latte ricavandone burro e formaggi.
Approfittando
del suo amore per la fanciulla essi tentarono di catturarlo con l'inganno, ma
senza riuscirvi.
Dopo
tale insuccesso ascoltarono i consigli di una vecchia donna, che nessuno sapeva
donde venisse e che era anch'essa una selvaggia, ma che, evidentemente,
intratteneva normali rapporti con gli abitanti del luogo.
Stavolta
il selvaggio venne catturato, ma spezzò le ritorte che lo tenevano prigioniero
e scomparve.
[…]
L'appellativo di "selvaggio", da intendersi evidentemente non nel
significato generale della parola, quello di meno civile, in quanto è proprio
questo "selvaggio" che conosce l'agricoltura e la tecnica casearia
che i nativi ignorano; bensì nell'accezione particolare che potremmo definire
"psicologica" che sta a significare una persona asociale, che si
tiene in disparte e non partecipa ad alcun gruppo, forse soltanto a causa della
sua timidezza, che la leggenda sottolinea.”
Scorrendo più attentamente
l'immaginario leggendario delle valli, lou sarvage, non sembrerebbe
essere stato l'unico responsabile delle nuove tecniche di casearie. Le
leggende, pazientemente raccolte tra il 1910 e il 1915 in ogni villaggio delle
valli da Giovanni Jalla e Maria Bonnet, introducono una significativa variabile
secondo la quale sarebbero state le fate, e non "il selvaggio" ad
insegnare ai locali i segreti concernenti la lavorazione del latte, per
ottenere burro, formaggio e sarass. In seguito, offese dal cattivo contegno dei
loro beneficati, - e noi diremo in perfetta simmetria con quanto accadde
all'uomo selvatico - li avrebbero però abbandonati senza rivelare altri segreti
caseari come, ad esempio, la possibilità di ricavare dal latticello "miele
e cera".
Non è questa la sede per addentrarci in
complesse - quanto discutibili - interpretazioni ma sicuramente val la pena
provare a trarre almeno due conseguenze da queste leggende.
Innanzitutto
che entrambe le versioni indicano un'origine non autoctona dei processi di caseificazione,
e testimoniano dunque un rapporto con un'"alterità", cioè con
qualcuno venuto dall'esterno: in proposito, se appare convincente
l'identificazione del "selvaggio" con qualche saraceno nascostosi
nelle caverne di queste vallate, le fate farebbero piuttosto pensare alla
presenza di qualche "malgara" proveniente da altre vallate alpine:
un'ipotesi che trova un suo fondamento anche negli studi della Nada Patrone che
rileva che tra i maestri "formagerii" “potevano ritrovarsi anche donne come
quella donna della Bresse, tanto abile a preparare il formaggio, che i suoi
prodotti erano largamente ricerca dai buongustai, pur avendo un prezzo più alto
di quelli preparati nella medesima località.”
Il
"ghetto" valdese e i suoi rapporti con l'Europa
I
Valdesi si considerano i discendenti della setta dei Poveri di Lione, nata nel
1170 ad opera di Pietro Valdo, un mercante che, dopo aver rinunciato alle sue
ricchezze, predica il Vangelo e l'opportunità di una scelta di radicale povertà
come momento di penitenza. Valdo e i suoi discepoli saranno presto cacciati dal
vescovo di Lione e lo stesso Valdo, dopo essere stato scomunicato, cadrà
vittima dell'Inquisizione.
La vicenda dei Poveri di Lione è stata
spesso associata a quella di altre sette ereticali quali, ad esempio, quella
dei Catari. In realtà sarebbe più corretto inserirla in quel clima di ritorno
alla semplicità che da più parti si esprime nella cristianità dopo l'anno
mille, con una condanna più o meno implicita, del potere mondano e temporale
della chiesa. In proposito, sia da parte valdese che cattolica gli studiosi
hanno recentemente sottolineato la vicinanza che corre tra Valdo, eretico
scomunicato e ucciso, e Francesco d'Assisi, proclamato santo: tra la vicenda
dei due uomini corrono solo trent'anni; ma sono anni decisivi, in cui la Chiesa
cattolica decide di fare i conti con i movimenti pauperistici, scegliendo la
strada dell'integrazione a quella dell'espulsione.
Nell'area del Pellice, Chisone e
Germanasca la presenza dei "Poveri" è documentata verso gli inizi del XIII secolo e le
persecuzioni religiose del Tre-Quattrocento sfiorano solo marginalmente queste
Valli.
Quando sopraggiunge, la Riforma Protestante trova
dunque in queste zone un terreno fertile e il movimento valdese riprende la sua
espansione: esce dallo stato di clandestinità e conquista nuove fasce di
popolazione, soprattutto tra gli artigiani e la borghesia. Nel 1532, nel sinodo
di Chanforan, in val d'Angrogna, i Valdesi aderiscono alla Riforma secondo il
credo Calvinista e tale scelta si rivelerà fondamentale per la loro
sopravvivenza in queste valli.
L'espansione protestante fu infatti
presto interrotta, dalla metà del XVI secolo, dalla repressione della Chiesa
cattolica e dei principi Cattolici: Filippo II di Spagna, Enrico II di Francia
ed Emanuele Filiberto di Savoia. L'Europa, per due secoli, sarebbe dunque stata
divisa in due schieramenti e, paradossalmente, alla piccola comunità alpina,
sarebbe toccata la sorte di essere l'unica isola protestante destinata a
sopravvivere in Italia, seppur tra durissime persecuzioni.
In Francia, con l'editto di Nantes del
1598, fu concessa la tolleranza religiosa alle minoranze protestanti. Tuttavia,
nel 1685 Luigi XIV, il "Re sole", abolì l’Editto: per i Valdesi
residenti in val Chisone, all’epoca sotto il dominio francese, non rimase che
l’alternativa tra l’abiura o l’emigrazione: molti si trasferirono nell’Inverso
della Valle, in val Germanasca o in val Pellice (sotto il dominio dei Savoia),
ma, l’anno seguente, il principe dello stato Sabaudo, per compiacere il re di
Francia, revocò anch’egli ogni forma di tolleranza costringendo così molti
Valdesi ad un’abiura formale (nel Settecento ricompariranno improvvisamente
molte famiglie valdesi) o all’espatrio. Molti di essi emigrarono in Svizzera:
per alcuni fu la meta definitiva ma per molti altri una base per organizzare il
ritorno, celebrato nella storia valdese come “Glorioso Rimpatrio”(1689). La
spedizione, finanziata e fortemente voluta da tutti i paesi protestanti - primi
fra tutti l'Inghilterra e l'Olanda - e, pur tra mille traversie e con pesanti
perdite, riuscì a riportare nelle Valli uno sparuto gruppo di Valdesi che
riaffermarono così il loro radicamento in queste terre e la loro specifica
identità.
Nel frattempo la sconfitta del Re Sole riportava a
miti consigli anche i Duchi di Savoia che assunsero nel corso del Settecento
una politica meno aggressiva - ma pur sempre intollerante: i Valdesi non
potevano, ad esempio, seppellire i loro morti all'interno delle mura dei
cimiteri cattolici - che avrebbe progressivamente condotto all'Emancipazione
concessa da Carlo Alberto nel 1848.
Dunque circolazione di uomini, idee e
forti legami con l'Europa protestante e in particolar modo e soprattutto in
relazione alle tradizioni casearie, con la Svizzera. Risultano allora molto
fondate le affermazioni della famiglia Plavan, produttrice di ottimi sarass
del fen sull'Alpe del Lazarà nel vallone di Pramollo, che sostiene che la
ricetta originale - in particolare quella della bouno - sia stata
importata a Riclaretto da un fruitier Svizzero.
Resta da capire quando. Sicuramente
dopo il Rimpatrio, dunque nel corso del XVIII, considerando che è solo in
questo periodo che, come abbiamo visto, all'interno delle Valli, si registra
una certa stabilità dovuta a maggiore tolleranza. Un'ipotesi credibile se si
presta attenzione alla documentazione sulla bouno esibita da Teofilo
Pons.
Dall'agro
alla bouno
Paul Scheuermaier nella sua monumentale
ricerca sul Lavoro dei contadini, pubblicata in Italia nel 1980 ci
ricorda che in quasi tutte le zone alpine il siero bollito viene fatto
coagulare con l'aggiunta di siero acidificato, chiamato anche "agra"
o, nel Piemonte nord-occidentale "buona".
Sulla ricetta della "buona",
nel patois, la bouno aleggiano probabilmente molte "leggende
valligiane", quali quella dell'esistenza di una bouno e di una pi
bouno, quasi alludere a un agro di prima e di seconda scelta. In ogni caso,
da un incontro con i produttori, è emerso che l'agro valdese sia costituito da
un'essenza di più di 25 erbe tra cui gemme di larice, ginepro, radice di
ortica, timo serpillo - e altre delle quali, per espressa volontà dei
produttori, non è stato possibile venire a conoscenza - addizionate con alcune
spezie tra il guscio di noce moscata.
La famiglia Plavan sostiene di
custodire gelosamente il segreto giunto dalla Svizzera e tramandato di famiglia
in famiglia, da Riclaretto, all'alpe del Lauzoun di Faetto fino all'Alpe del
Lazarà nel vallone di Pramollo. Tutto ciò è credibile perché le tre aree
indicate sono tra loro confinanti e si confermano, almeno per tutto l'Ottocento
aree di produzione del seirass del fen.
Oltre
tutto, la fonte orale - anche se la famiglia Plavan sembra non esserne a
conoscenza - trova un puntuale riscontro nell'opera di Teofilo Pons, grande
studioso dell'etnografia e della cultura popolare delle valli valdesi, il quale
parla di una “famiglia Peyronel, del Troussan di
Riclaretto che, almeno per due generazioni, si diede a coltivare con passione
questo lavoro di aromatizzazione dei famosi sëras di Riclaretto e di Faetto.
Dall'ultimo
di questi Peyronel agricoltori-allevatori, Giacomo, il segreto della bouno fu
ad un certo momento svelato ad un suo amico di Pramollo, un Tommaso Ribet, che
a sua volta lo rivelò ad un Eli Jahier, i quali migliorarono così i loro
prodotti caseari. Il Ribet inoltre, imparentatosi con la famiglia Menusan dei
Chiotti, finì per rivelare anche a questa famiglia la ricetta alla base del
miracoloso e misterioso miscuglio.[…]
Si
confezionava in una capace tinozza, come quelle in uso per fare il bucato, con
gli ingredienti seguenti: a) mezza libbra di cannella naturale; b) 24 noci
moscate; c) due once di chiodi di garofano; d) un sacco di 4 emine di radici
d'ortica di buona qualità; e) una bisaccia (saquetta) piena d'uva acerba e di
«cornigles», probabilmente corniole, frutti del corniolo; un pugno di radici di
«jeanse», verosimilmente «Panax Ginseng»; g) una mezza dozzina di radici di
aigrot, «Imperatoria osthrutium» o «Peucedanum osthrutium»; h) un lievito da 10
a 12 libbre, coperto tutt'intorno da chiodi di garofano; i) mezza libbra di
cannella sul lievito e mezzo pugno di chiodi di garofano; k) 13 «bouts de
melaise», germogli di larice ?; l) due pugni di ortiche fresche, non ancora
fiorite; m) ad ogni pasto due buoni pugni di sale per conservare il tutto; n)
ad ogni pasto versarvi un secchio di latte ben purgato; o) si purga il latte
con due pugni di uva non matura o delle «cornigles» ( cornouilles ), oppure
«acetosella» pestata in modo da dare una pinta e mezza di succo; poi si cola in
un pezzo di tela rada, si pesta, aggiungendo un po' d'acqua e colando
nuovamente il tutto. Si mettono infine da cinque a sei pinte di vino in un
secchio, per fare inacidire il latte che si dève mettere per primo nella bouno,
e dopo averlo ben purgato, bisogna colarlo ancora.”
Un'attestazione
ufficiale: il seirass del fen nell'Inchiesta Jacini
Il lavoro di Pons sarebbe già di per sé
sufficiente a testimoniare una tradizione casearia molto particolare, ma una
D.O.P. esige probabilmente un riconoscimento più esplicito dell'esistenza del
prodotto. Questa sorta di certificazione ci viene nientemeno che dai risultati
raccolti dall'On.Meardi per il Piemonte in occasione dell'Inchiesta Agraria
Ministeriale promossa dal deputato della Destra Storica Stefano Jacini. I
lavori dell'inchiesta durarono quasi un decennio quindi è verosimile pensare
che i dati raccolti qui sotto riportati si riferiscano ai primi anni Ottanta
dell'Ottocento. Il nostro cacio-ricotta esiste dunque da almeno 120; ma la cosa
più interessante che emerge dalla lettura dei risultati della relazione Meardi
è che essi costituiscono un significativo tassello che si inserisce
perfettamente nel mosaico che abbiamo tentato fin qui di ricostruire: “Fatte poche eccezioni, il caseificio si
trova nella provincia di Torino ancora in uno stato molto primitivo. La
produzione del latte ha in tutte e tre le zone una certa importanza; maggiore
in quelle delle montagne ove costituisce il principale prodotto del bestiame
dei vasti pascoli alpini.[…]
Nella
terza zona delle Alpi, l'industria casearia ha il suo massimo sviluppo; ivi a
seconda delle località si fanno burro, formaggi e ricotte, dette in vernacolo
seiras che formano oggetto anche di esportazione. […]
Sull'alpe
del Lanzon e di Pramollo si fabbrica una specie di ricotta detta in vernacolo
seiras del fen, essa è fatta con una mescolanza di siero dei formaggi, e latte
puro, facendolo bollire con un liquido speciale, cioè una soluzione di acidi
con aromi, che forma il segreto del fruitier di cui è assai geloso.
L'ebollizione
e gli acidi coagulano il miscuglio di latte e siero, che salato, collocato in
stampi, e disseccato, viene avviluppato nel fieno da cui prende il nome. […]
Dopo
essersi tolta al piccolo latte la brosse con cui si fa il burro suddetto, vi si
aggiunge il boné (ossia l'azy degli svizzeri, cioè del piccolo latte inacidito
contenente in infusione certe erbe aromatiche) e lo si scalda fino ad
ebollizione; il piccolo latte si spoglia della materia caseosa che ancor
contiene la quale viene a galla sotto forma di grumi biancastri, con cui si fa
il seras o sairas dei piemontesi che vien consumato fresco, o salato e fatto
essiccare.”
Alla fine dell'Ottocento il sarass
del fen godeva dunque di una tradizione ormai consolidata nelle Valli Valdesi
tanto che anche gli storici locali cominciavano a considerarlo un prodotto
degno di nota, come in questa breve nota di Pittavino sulla val Germanasca (val
S.Martino): “Le industrie consistono essenzialmente nell'estrazione dei
minerali, nella confezione del burro e del formaggio. Rinomato in specie quello
del fieno o del Laouson”(1908).
Consumato
fresco o stagionato come companatico, era destinato a diventare un ingrediente
tipico anche della cucina delle valli, tanto che due abili ristoratori e riscopritori
di ricette del luogo, quali Walter e Gisella Eynard, non hanno potuto fare a
meno di citarlo nella loro accurata raccolta di ricette valdesi.
Attività
cooperative e consortili
Nel corso del nostro incontro con i
produttori di sarass sono emerse anche alcune indicazioni sulle forme di
cooperazione che stavano alla base della vita d'alpeggio.
Non esistevano particolari tradizioni
di festa legate alla produzione del sarass, ma sembra che, almeno fino agli
anni '70, il momento di festa coincidesse con la discesa a fondovalle per la
vendita del prodotto.
Era
in quella circostanza che ci si riuniva per dividerlo. La ripartizione della
quota spettante a ciascuno veniva calcolata dopo 8 giorni che la mandria era
salita in alpeggio, perché gli animali necessitavano di un periodo di riposo
per poter cominciare a produrre a pieno ritmo. E qualcuno, ironicamente, ci ha
ricordato che, per il giorno della misura, si assisteva sistematicamente ad una
corsa all'accapparamento dei pascoli migliori.
In val Pellice ogni giovedì veniva
caricato il burro per venderlo sui mercati di Torre Pellice e Luserna il giorno
successivo. Oltre che destinato al consumo locale, il sarass, durante la
vendemmia, veniva venduto in quantità notevole nelle aziende vitivinicole.
Secondo la testimonianza di alcuni produttori sembra esso venisse avvolto nel
fieno solo quindici giorni prima della vendita.
Vediamo un po' più in dettagli come
funzionava la struttura consortile della partìa, secondo la ricostruzione di
Teofilo Pons: “Allo
scopo di sfruttare nel modo più redditizio i vari importanti alpeggi della val
Pellice, erano sorte le cosiddette partìe, le quali costituivano un tipo
particolare di società cooperativistica, nata fra i gruppi familiari che
conducevano il loro bestiame nei singoli alpeggi, per sfruttarli nel modo più
economico possibile. In queste partìe si metteva insieme il bestiame di varie
famiglie quando si saliva all'alpe. Dopo la prima settimana si verificava il
peso giornaliero del latte prodotto dalle singole famiglie, verifica che si
ripeteva a metà stagione e prima di ridiscendere il bestiame. Alla fine della
stagione si facevano i conti generali, si deducevano le spese varie
dell'alpeggio e di chi aveva lavorato per i partitati ed il ricavato veniva
diviso fra i singoli e distribuito secondo le convenzioni prestabilite, sia in
danaro sia in burro e formaggio.
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