sabato 22 gennaio 2011

Canapa: una lunga storia tra Carmagnola e Macello



Canale di macerazione per la canapa
 a Carmagnola

L'area di Carmagnola, Lombriasco, Casalgrasso, Carignano, Moretta, Polonghera, Carignano, Racconigi, Villafranca, Faule, Pancalieri, Cavour Vigone, Virle, Cercenasco,Garzigliana e Macello è una regione in cui la coltivazione della canapa è stata nei secoli assai diffusa e significativa per l'economia locale.

            Le tracce di quella quella coltura sono disseminate nei nostri paesaggi agrari, all'interno dei quali occhi attenti possono ancora scorgere i resti di qualche maceratoio (nasur), oppure in alcuni toponomi, come quello di regione “battitori” a Macello.
          L'attenzione su questa antica coltivazione è stata richiamata in anni recenti dal Comune di Carmagnola, che ha addirittura costituito un ecomuseo della canapa, e attraverso tenaci volontarie ricorda ancora quanto fosse importante, nel capoluogo di pianura, l'attività dei cordai, organizzati in corporazione artigiana fin dal XVIII secolo e concentrati nel borgo San Bernardo.
            Il mercato di Carmagnola era del resto già celebre nel Trecento per il commercio della fibra e del seme di canapa e nel corso del'età moderna i cordai carmagnolesi furono tra i principali fornitori dell'esercito sabaudo. Con l’avvento dell’industria nella prima metà dell’Ottocento a Carmagnola erano presenti già tredici canapifici che lavoravano per un fiorente mercato per il quale - come ricorda Renzo Agasso[1] - nel 1846 fu costruita un'apposita tettoia. Germana Cortassa, nella sua tesi di laurea, parla addirittura di un marrchio di qualità: "I commercianti di canapa di Carmagnola, vista la rinomanza della loro produzione, richiedevano ogni qualvolta inviavano balle di canapa fuori dal territorio comunale, l'apposizione del timbro della città, attestante la provenienza della canapa e la qualità".
            Carmagnola deteneva sicuramente il primato quantitativo nella produzione di canapa, ma quanto a quantità - se rapportata alle dimensioni del comune - e soprattutto a qualità anche Macello non scherzava. I catasti conservati nell'Archivio storico testimoniano infatti che se questa coltivazione era totalmente assente nel Trecento, essa prese invece piede nel corso dei secolil XV e XVI: da 12 giornate del 1437 si passa a 18 del 1458, a 23 nel 1533. Dietro a questo incremento a Macello, e più in generale nella piana pinerolese, si cela sicuramente lo sviluppo delle industrie artigiane a Pinerolo che, nel corso del Quattrocento, grazie a una buona disponibilità di risorse idriche e manodopera, nonché a un sistema mercatale e fieristico che richiamava commercianti anche da molto lontano, erano in grado di conquistare anche mercati lontani.
            La canapa segnerà in ogni caso profondamente il paesaggio agrario di Macello nei secoli. Secondo una testimonianza di Luigi Priotti, nel periodo di massima espansione, essa ebbe un'importanza pari al mais oggi. E una conferma in questo senso ci viene da Goffredo Casalis che sottolinea, a metà dell'Ottocento, come la canapa macellese riesca "molto atta alla formazione della tela". Ma gli usi della canapa erano molteplici e andavano al di là dei tessuti: essa serviva, come abbiamo già detto, per produrre robuste funi, i suoi stocchi venivano usati per la lettiera degli animali e da essa poteva venire estratto l'olio.
            La canapa veniva seminata di norma su terreni profondamente arati e ben concimati in rotazione con i cereali e offriva ai contadini un buon ritorno economico. Nonostante ciò va detto che essa ebbe scarsa diffusione nella provincia di Torino (alla fine del XIX secolo occupava un decimo dell'arativo, in media 4500 ettari, con un prodotto medio di 28.000 quintali all'anno) in generale e - dato assai interessante per noi - finì per concentrarsi proprio nella nostra regione come ci ricordano anche i contemporanei: "In tutti i territori posti nella pianura fa ottima riuscita [...]; nei territori però di Vigone e Pancalieri se ne raccoglie in maggior quantità; la migliore, ossia la più forte è quella che raccogliesi nel territorio di Macello" testimonia l'architetto Amedeo Grossi all'inizio dell'Ottocento. E ancora Goffredo Casalis ci ricorda che a Macello, Cavour, Villafranca, Pancalieri e Vigone la canapa occupava l'ottava parte "dei medesimi campi, e si aumenterà vieppiù questo ramo di coltura avuto riguardo al prezzo della canapa stessa". Le cose in realtà - come scrive Renzo Agasso - andarono diversamente dalle previsioni del Casalis, infatti con il pretesto del risanamento del debito estero Quintino Sella fece chiudere molte corderie destinate alla marina militare e rinunciò ad utilizzare la canapa nostrana.
            Oggi è l'Assocanapa, e soprattutto il suo tenace presidente, Felice Giraudo, a investire sul rilancio di questa coltura, e non è detto che con le nuove politiche agrarie del 2006, questa scommessa non possa rivelarsi alla fine vincente, ridisegnando nuovamente parte del nostro paesaggio agrario.
                                                                                                                                   

La canapa nelle Inchieste agrarie di fine Ottocento

           L'inchiesta agraria di Stefano Jacini e quella di Agostino Bertani sulle condizioni dei lavoratori della terra ci offrono una dettagliata descrizione delle fasi di lavorazione della canapa e degli inconvenienti che esse potevano produrre:

La canapa è coltivata più estesamente; divelta a maturità dal suolo, viene legata in fasci e poi deposta in strati in apposite fosse che sono riempite d'acqua; quivi è tenuta sommersa ponendovi sopra pietre o terra. La macerazione dura 6 o 7 giorni, cioè finché, provando si vede che la fibra si stacca, poscia si estrae la canapa, e la si lava e netta diligentemente onde la materia tigliosa non rimanga sporca, e la si pone ad asciugare al sole.
La macerazione possibilmente è fatta in acqua stagnante perché riesce meglio; coloro però che non possiedono maceratoi, e sono vicini a qualche torrente sogliono anche collocarla in queste. Nelle località prive d'acqua si fa macerare la canapa alla rugiada, stendendola sui prati o sulle stoppie dei campi. Le macerazioni chimiche sono ancora affatto sconosciute.
La stigliatura è fatta in massima parte a mano nelle serate d'autunno, e nei giorni piovosi.
In alcuni siti si usano le antiche e rozze maciulle di legno; l'uso delle macchine incomincia appena in quei territori ove la canapa è coltivata più estesamente.
La macchina dell’ingegnere Barberis, mossa dal vapore, è adoperata in qualcuno dei maggiori fondi nel territorio di Villafranca e paesi circonvicini.
Il conte Meana, in Fossano cercò diffonderne l'uso e fu il primo che abbia introdotto un sistema di stigliatura industriale, assumendosi di compiere tale operazione per tutti coloro che vogliono condurla al di lui predio.[2]
La macerazione che si fa all'aria aperta non è punto insalubre: un odore speciale e penetrante che esala dal campo dove ha luogo, produce cefalgie ed anche vomito, ma nelle persone soltanto che non vi sono abituate. […]. La macerazione nell'acqua corrente è preferita. L'acqua corrente scioglie a poco a poco e trasporta le materie gommo-resinose e coloranti di queste piante. […]
La macerazione di queste piante si fa anche in acque stagnanti o semistagnanti, sia che si abbiano naturalmente sul posto, sia che si ottengano deviando acqua corrente in fosse all'uopo scavate, o in altri modi. In questo caso l'acqua è sempre satura di sostanze organiche in putrefazione e di altre sostanze fisse o volatili che si svolgono da essa. L'aria circostante fa sentire anche di lontano un odore graveolente, che fu ritenuto in passato nocivo alla salute degli abitanti. Ma se i prodotti gassosi della putrefazione riescono molesti, non sono di alcun nocumento; e perciò i luoghi in cui si opera la macerazione si debbono considerare incomodi anziché insalubri, e sarà provveduto abbastanza quando si tengano lontani dall'abitato. […]
Se il terreno contiene i germi della malaria, è certo che senza un conveniente deflusso, le fosse di macerazione vengono a favorirne lo sviluppo. Come si è detto per le risaie, abbiamo qui riunite l'umidità e l'azione dell'ossigeno dell'aria, che insieme con l'alta temperatura sono le circostanze più propizie alla moltiplicazione di quei germi. […]
            La maciullatura delle canape e del lino, che si fa dopo la macerazione, è un lavoro che può durare, secondo la quantità del raccolto, da poche settimane a parecchi mesi.[3]


Filmato sugli attuali riutilizzi della canapa (da You Tube)






[1] AA.VV, Tra arti e mestieri, Centro Studi Carmagnolesi, Carmagnola, 1992.
[2] Meardi Francesco, op.cit., p.151.
[3] Panizza Mario, Risultati dell'Inchiesta istituita da Agostino Bertani sulle condizioni sanitarie dei lavoratori della terra in Italia, Roma, Stabilimento Tipografico Italiano, 1890, pp.42-43.



Paesaggio e colture agrarie della piana pinerolese attraverso i secoli

Il paesaggio come risorsa
         Da alcuni anni la Provincia di Torino, attraverso l’assessorato alle risorse naturali e culturali, ha avviato il “Progetto di Cultura Materiale”, che intende valorizzare la storia del paesaggio agrario fino a farlo diventare un vero e proprio “ecomuseo” che, attraverso itinerari a soggetto, come le piste ciclabili, aiutino il visitatore a riscoprire la cultura contadina e a fruire del paesaggio non solo come una bellezza da gustare, ma anche come il risultato di un processo storico, frutto di un intenso lavoro di intere generazioni che lo hanno modellato in relazione a specifici bisogni ma, soprattutto in relazione alle sfide che l’ambiente naturale poneva loro.
         Se per le valli, anche per il visitatore più distrattto, è ancora possibile cogliere i segni delle epoche passate, molto più difficile risulta immaginare quale sia stato nei secoli l’aspetto del paesaggio agrario della piana pinerolese, ove vecchi caseggiati in pietrame e mattoni crudi, filari di alberi, fossi a cielo aperto per lo scolo delle acque, siepi o cespugli di acacie ai bordi dei campi meno fertili e tanti altri preziosi “indicatori” stanno lentamente scomparendo. Gli studiosi devono oggi fare ricorso sempre più agli archivi storici (consegne, catasti, mappe, registri notarili), alle testimonianze orali, all’archeologia e alla fotografia aerea, per individuare i segni di un paesaggio agrario altrimenti indecifrabile. Nonostante queste difficoltà, relativamente al nostro territorio, sono apparse interessanti ricostruzioni che ci aiutano, a comprendere quale sia stata la sua evoluzione attraverso i secoli.

Alle origini del paesaggio agrario
         Un interessante studio condotto da Grado Merlo su un inventario dei beni dell’abbazia di S.Maria di Pinerolo (1328), sui Conti della Castellania e sugli Statuti, relativamente al complesso fondiario del Musinasco (Villafranca) ha permesso all’autore di delineare il paesaggio agrario di Villafranca all’inizio del XIV secolo. Sorta in riva al Po nel corso del XII secolo, Villafranca si sviluppa grazie alle opere di dissodamento messe in atto dai monaci o da qualche signore del luogo ed alla sua posizione, che ne fa un’area di produzione e di scambio. “Ci troviamo di fronte ad un paesaggio - spiega l’autore - lineare: un’ampia zona pianeggiante con lievi ondulazioni (“podia”) e depressioni (“bassia”) del terreno. Ad interrompere tale uniformità sono i corsi d’acqua. [...] L’azione del Po e del Pellice, unita al fatto che nella zona di Villafranca riaffiora la linea delle risorgive e tutto il territorio è assai ricco di acque, determinava il formarsi di vari “lacus” [...] piccoli bacini paludosi”. [...] L’abbondanza di acque doveva aver reso il territorio di Musinasco prevalentemente acquitrinoso, regno delle erbe palustri e della vegetazione arbustiva. [...] Per la messa a coltura dei terreni dovette perciò svolgersi un’ampia attività di bonifica e di dissodamento.” I dati relativi al documento del 1328 riguardano la distribuzione agraria di 1596 giornate di terreno: per il 69,5% sono di arativo nudo, al quale vanno aggiunti gli appezzamenti di arativo misti ad altre colture, in prevalenza piantato (7%) e prato (10%); infine il bosco (1,3%) e l’incolto produttivo (1,2%). I cereali più largamente coltivati erano l’avena, la segale, la meliga o saggina, il miglio e il panico. Ad essi si affiancavano i legumi (fave, fagioli, ceci, cicerchie) e la canapa. Tra le colture arboree: alberi da frutta (meli, peri, noci, noccioli e ciliegi), e olmi, pioppi e querce. Ampiamente attestata anche se la presenza della vite anche se, data l’unidità del luogo, non doveva essere troppo diffusa. Conclude dunque lo storico affermando che si tratta di “un paesaggio di pianura caratterizzato da campi appena delimitati da viottole, da una via vicinale o da una più importante strada di comunicazione. Si tratta probabilmente di campi aperti, che contrastavano con le “clausurae”, con gli appezzamenti chiusi a coltura specializzata, posti nelle immediate vicinanze di Villafranca. (Foto Cascina del Musinasco)

Prati, boschi, canapa e alteni
         Un articolo di Giancarla Bertero su due catasti del XV secolo sposta invece la nostra attenzione sul territorio di Buriasco, diviso all’epoca in Buriasco Superiore ed Inferiore: una ripartizione che non è solo amministrativa ma mostra come il paesaggio agrario tenda a mutare man mano che ci si avvicina a Pinerolo. Nelle terre di Buriasco inferiore la quota più consistente di coltivazione è infatti ancora rappresentata dal prato localizzato un po’ ovunque sul territorio buriaschese, associato talvolta all’arativo e all’alteno. Secondo la studiosa “La diffusione del prato, più massiccia che nel territorio pinerolese, dove interessava il 15,16% della superficie agraria, e il censimento di un certo numero di airali sono indizi di un’attività di allevamento del bestiame che il catasto non consente di quantificare perché [...] non riporta il numero dei bovini e degli ovini posseduti”. Noi ne abbiamo però rintracciato la presenza nel limitrofo territorio di Macello, attraverso i “Registri di comunità”: nel 1391 sul territorio vengono censiti 244 bovini, 58 suini, 7 ovini e 5 cavalli; nel 1418, un lieve calo dei bovini (205) risulta compensato da un deciso aumento degli ovini (147); una tendenza che tende a stabilizzarsi anche nella seconda metà del secolo. Nella scelta di incrementare l’allevamento degli ovini aveva sicuramente giocato un ruolo importante la presenza di ampie aree boschive nel territorio del Comune, ampiamente testimoniate nei registri catastali, dal XIV al XVI secolo, nonché da toponimi del luogo esistenti tuttoggi (Regione Boschi). Il bosco, come è noto costituiva un importante sostegno per la fragile economia dell’uomo medievale: oltre al pascolo di ovini e suini, esso era teatro di attività di cacciagione e di raccolta di frutti selvatici, nonché di legname.
         I documenti relativi a Macello ci offrono infine una preziosa indicazione sulla diffusione della canapa in questa zona: totalmente assente nei registri del Trecento essa fa la sua comparsa in quello del 1437 (12 giornate), 1458 (18 giornate), 1533 (23 giornate). Si tratta di una coltura destinata a segnare profondamente il paesaggio agrario di Macello nei secoli. Secondo una testimonianza di Luigi Priotti, nel periodo di massima espansione, essa aveva un’importanza pari a quella del mais oggi. E Casalis (XIX sec.) attesta che la canapa macellese “riesce molto atta alla formazione della tela”. Infine un lavoro di ricerca di Valerio Bertinetto ci ricorda che gli usi della canapa erano molteplici: oltre alla produzione di tessuti, ma soprattutto di robuste funi, da essa veniva estratto l’olio ed, infine, gli stocchi della canapa venivano usati per la lettiera degli animali.
         Il quadro muta decisamente man mano che ci si sposta verso Pinerolo. Nel territorio di Buriasco superiore (Frossasco, Roletto, Piscina), nel 1444, l’alteno occupa 170 giornate, il 74% della superficie coltivata. “L’alteno - spiega la Bertero - aveva soppiantato completamente le vigne a palo secco, ancora numerose sulla collina pinerolese. La differenza tecnica di coltura corrispondeva ad un diverso modo di sfruttamento del terreno: le “pecie” (appezzamenti) di alteno erano più estese delle vigne e l’alteno richiedeva meno lavoro del vigneto, poiché il mancato impiego di pali, già di per sé economicamente vantaggioso, consentiva di evitare le operazioni di sostituzione connesse al loro deterioramento e la legatura dei pampini. Gli alberi, che a loro volta producevano frutti, assicuravano oltre al sostegno, anche un certa protezione contro le avversità climatiche come le gelate primaverili e la grandine, grazie alle loro fronde”.

Sviluppo e declino del paesaggio della Marsaglia
         Secondo un documentato lavoro di Gianfranco Martinatto, dedicato al territorio di Piossasco, la coltivazione della vite nell’area collinare di Piossasco, rappresenta una costante del paesaggio dall’epoca romana, che nemmeno le invasioni barbariche sono riuscite ad estirpare. Anzi dal basso medioevo essa riprende un posto predominante tra le colture del territorio per estendersi, nell’età moderna anche nella pianura sottostante. Tuttavia “Mentre la vigna collinare - spiega Martinatto - si presenta delimitata e difesa da mura e siepi vive, sempre sotto il controllo del proprietario, l’alteno di pianura non offre nessuna difesa agli sconfinamenti indebiti e la sua sistemazione in campo aperto è spesso lontana dallo sguardo vigile del coltivatore. La regolamentazione del pascolo e dei diritti comuni sugli incolti ha dunque permesso a questa produzione di espandersi verso la pianura.”
         Anche per la zona di Piossasco il lavoro di Martinatto documenta, unitamente ad una forte presenza dell’alteno, la coltivazione di svariati cereali quali frumento, barbariato, segala, meliga, ceci, cicerchie (leguminose), fagioli ed infine, dal XVI secolo, della canapa. Secondo lo studioso “in tutta Europa dal XVI secolo nasce uno stretto legame tra agricoltura e industria. Lino, canapa e piante di gelso per la bachicoltura vengono coltivati per fornire all’industria tessile in forte espansione i prodotti base delle sue lavorazioni.”
         Anche se breve, la vicenda della coltivazione del riso che investe l’area detta della Marsaglia (Cumiana, Piossasco, Volvera, Piscina) è indicativa della presenza di un capitalismo agrario nelle nostre campagne che punta su un’agricoltura estensiva che troverà larga resistenza tra le popolazioni locali, soprattutto fra i piccoli proprietari legati a colture cerealicole. “I motivi di tale avversione - spiega Martinatto - sono da ricercarsi nella difficile convivenza delle produzioni tradizionali di questa zona (cereali, vino, frutta e fieno) con quella del riso. Un primo problema è legato al fabbisogno idrico; la nuova coltivazione assorbe tutte le acque del Chisola e di altri torrenti e canali minori togliendo ogni possibilità ad altre colture di usufruire dell’acqua. [...] La stagnazione delle acque là dove viene messo a dimora il riso porta su queste terre, generalmente asciutte, umidità e nebbie persistenti. Oltre a queste alterazioni ambientali la coltivazione del riso procura introiti e vantaggi solo ai feudatari mentre, sembra di capire dai documenti, i contadini locali, già colpiti nelle proprie rendite, vengono estromessi dalle attività di raccolta. Per questo lavoro infatti sono ingaggiati degli estranei che spesso e volentieri depredano le vigne.”
         Le rimostranze delle comunità di Cumiana e di Piossasco porteranno pertanto al divieto della coltivazione del riso, che scomparirà con la peste del 1630: questo esperimento fallimentare lascierà però nella regione della Marsaglia nei territori limitrofi un paesaggio di desolazione di duemila giornate di terreno ridotte a boschi e gerbidi.
         La decadenza del paesaggio agrario di questa e altre zone va però anche collegata alla presenza di eserciti stranieri per tutta l’età moderna: incendi, distruzioni, saccheggi di castelli (Airasca e Cumiana), carestie e pestilenze rendevano la situazione di queste terre sempre più precaria, e non lasciavano agli abitanti occasioni per tirare il fiato.
         Alla fine del XVII secolo poi il territorio pinerolese fu particolarmente segnato dalla campagna militare di Catinat, per il quale queste terre non furono solo un luogo di transito ma, al contrario, un luogo di sosta e di scontro. Sono tristemente famose le vicende di Cavour, rasa al suolo dal maresciallo francese nel 1691. Relativamente alla zona di Piossasco, Martinatto ci offre significativi dettagli sull’impatto della campagna militare sul paesaggio agrario: “Non solo i raccolti furono compromessi ma anche il futuro delle coltivazioni. La viticoltura fu la più danneggiata: viti e bronconi vennero divelti rovinando il lavoro di anni, limitando e compromettendo la produzione delle stagioni successive. In queste distruzioni furono coinvolte sia le vigne e gli alteni di pianura, sia le piccole vigne di collina, poiché rendevano disagevole al Catinat il cammino e la ricerca di una via verso Pinerolo. Alle violazioni delle piccole proprietà domestiche (orti, giardini, vigne) sono da collegare i fatti di sangue tra popolazioni locali e francesi. [...] Le rappresaglie, i furti rendono ancor più desolato lo stato dei luoghi. Piossasco, in questo doloroso frangente della sua storia, non solo vede languire le sue terre, ma assiste anche alla conclusione di un’epoca: la distruzione del simbolo del potere feudale che per tanti anni aveva caratterizzato e condizionato la plurisecolare vita del luogo. [...]
         Il tono minore delle successive tappe della storia locale- conclude lo studioso - più che agli eventi bellici e alle sollevazioni popolari sarà da imputare alla ormai irreversibile crisi di alcune produzioni come quelle del vino e della seta, nonché alla riduzione dell’allevamento ovino e della relativa produzione laniera. L’affermarsi delle produzioni cerealicole di conferma un’incipiente proletarizzazione delle campagne.”

Epilogo
         Il movimento circolare che abbiamo fin qui seguito ci riporta ora verso la piana in direzione di Cavour e Villafranca. In quest’area pianeggiante, all’inizio del ‘700, venivano coltivati cereali di ogni specie - soprattutto grano - anche se la coltivazione più rappresentativa era ancora il prato stabile. Per tutto il secolo rimane significativa la presenza di pascoli e di terreni incolti, ma emerge anche la tendenza ad allargare la superficie coltivabile eliminando i maggesi e allargando i cicli delle rotazioni. Inoltre, dalla fine del secolo, a fronte di alcune costanti il paesaggio agrario registra la significativa introduzione di nuove colture quali il mais - che porterà con sé la tragica diffusione della pellagra tra la popolazione più povera-, la patata e i gelsi per l’allevamento del baco da seta. Questi ultimi erano spesso ubicati in gran quantità in mezzo ai campi dei seminativi, e, all’interno dei centri abitati lungo pubbliche vie e cortili. Il Casalis ne testimonia una consistente presenza Buriasco, Macello, Villafranca e Cavour ove si afferma che sono coltivati “con particolare diligenza, e l’annuo prodotto dei bozzoli, che riescono di ottima qualità, eccede i rubbi 6000”. La loro presenza nel territorio di Vigone giustifica addirittura un mercato che si teneva nei mesi di maggio e di giugno “per la vendita e la compra della foglia dei gelsi, che vi si trasporta non solo da questo territorio, ma eziandio da quelli di Virle, Vinovo, Cercenasco, Piobesi e None”.
         I vitigni mantengono la loro importanza soprattutto nell’area pedemontana: in particolare  a Buriasco superiore (“Vi riesce assai buono il vino”), Campiglione e Fenile che alimentano un mercato vinicolo verso Pinerolo e Saluzzo; significative presenze di alteni vengono registrate anche a Cavour e Macello. Presente anche a Vigone per tutto il settecento, la vite scompare progressivamente dal territorio nel secolo successivo “le uve riuscendo perlopiù di infima qualità, e non dando perciò un compenso che pareggiasse le cure e le spese”.
         Abbiamo già parlato dell’espansione della canapa: nel XIX secolo essa rappresenta una presenza significativa, oltre che a Macello, a Cavour e Villafranca e Vigone ove si afferma che “occupa un’ottava parte dei medesimi campi, e si aumenterà vieppiù questo ramo di coltura avuto riguardo al prezzo della canapa stessa”.
         Pur con la cautela che le generalizzazioni impongono possiamo ritenere attendibile la suddivisione colturale proposta da Luigi Priotti: una parte a prato stabile, laddove era possibile l’irrigazione; ben il 50% era riservato ai cereali maggiori: grano e segale, seguiti in ordine decrescente da mais, avena, patate; ancora prati in rotazione triennale di leguminose”.
         Ovunque alberi da frutta: meli, peri, sui bordi dei canali e in mezzo ai prati; peschi nelle vigne, ciliegi e susine attorno alle case; noci in ordine sparso. Infine querce, olmi, frassini, acacie, pioppi lungo i bordi dei canali o delle strade. Quanto al bosco, in pianura, esso si avviava lentamente a scomparire, tranne che nelle vicinanze dei torrenti, come attesta questa testimonianza del Casalis relativa a Vigone: “I boschi, che prima dell’epoca del governo francese occupavano una considerevole parte di questo territorio, specialmente quella che in sulla manca sponda del Chisone e del Pellice, furono in quell’epoca in parte dissodati e ridotti a campi, ed il prodotto di quelli che ne rimangono ancora, essendo devastato dal dente del bestiame e dalla avidità delle famiglie indigenti, che ne fanno un gran guasto, non si può calcolare che alla metà di quello che se ne dovrebbe attendere”.

Per approfondire:
Accastello Elio, Evoluzione delle colture nel territorio di Cavour, Tesi di diploma, Istituto Professionale Statale per l’agricoltura e l’Ambiente di Osasco, a.s.1998-99.
Bertero Giancarla, Paesaggio agrario a Buriasco nel secolo XV, in: “Buriasco-Macello. Quaderno di cultura popolare”, Dicembre 1997.
Bertinetto Valerio, Storia di una cascina: Il Sordello, Tesi di diploma, Istituto Professionale Statale per l’agricoltura e l’Ambiente di Osasco, a.s.1998-99
Bulferetti L., Luraghi R., Agricoltura, industria e commercio in Piemonte dal 1814 al 1848, Torino, Istituto per la Storia del Risorgimento, 1966.
Casalis Goffredo, Dizionario geografico degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino, 1842.
Grado G. Merlo, Unità fondiarie e forme di coltivazione nella pianura pinerolese all’inizio del XIV secolo, Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino, 1974.
Martinatto Gianfranco, Paesaggi e uomini di Piossasco, L’Arciere, Cuneo, 1996.
Priotti Luigi, Colture agricole di ieri, di oggi... e di domani, in: “Buriasco-Macello. Quaderno di cultura popolare”, Dicembre 1997.
Ruffino Claudio, La Marsaglia. Studio di un’unità di paesaggio della bassa pinerolese, Tesi di diploma, Istituto Professionale Statale per l’agricoltura e l’Ambiente di Osasco, a.s.1997-98