martedì 19 settembre 2023

 SULLE TRACCE DEL SARAS DEL FEN

 STORIA DI UN CACIORICOTTA PIEMONTESE

 

L'annuo prodotto del butirro è calcolato a dodici mila rubbi; e quello del formaggio a rubbi mille e seicento. I caci che si fanno in grande quantità col latte di vacca, delle capre e delle pecore nelle valli di Luserna, s.Martino e Pragelato, riescono assai buoni, e si smerciano con facilità.

 Goffredo, Corografia e storia della città e provincia di Pinerolo, Tipografia Marzorati, Torino, 1847.

 

Su queste Alpi pecore e mucche vengono mandate a pascolare per tre mesi d'estate. Vari casolari e piccole capanne, sparsi sui pendii delle montagne, fungono sia da caseifici che da abitazioni per i proprietari e le loro famiglie. Per lo più essi sono costruiti in pietra, ma di aspetto molto umile, e non si distinguono affatto quanto a pulizia. Essi badano al bestiame nei ricchi pascoli che abbondano in questa regione, fanno il formaggio con l'eccellente latte che le bestie producono e raccolgono erba e muschio da usare come foraggio per l'inverno nelle Valli.

Henderson E., The Vadois: comprising observation made durino a Tour to the Valley of Piedmont in the summer of 1844, Snow, Londra, 1845

 

         Qualsiasi ricerca oggi muove i primi passi attraverso internet: un vero paradosso, se pensiamo che, quando si tratta di prodotti tipici, siamo a caccia di qualcosa che sta scomparendo, per cui il web ci offre al massimo uno "specchio deformato" di informazioni raccolte qua e là a casaccio e in breve tempo, sovente senza esplicitare le fonti, anzi piuttosto replicando curiose "leggende" come quella della festuca che avrebbe avvolto i sarass fornendo loro un particolare sapore: ipotesi sulla quale non solo ho trovato pochi riscontri nella documentazione ma che non ha neanche fondamento scientifico dal momento che risulta che la festuca al più svolga una funzione assorbente. Lodevoli dunque tutti i siti internet dedicati ai formaggi ma poco ci aiutano ad approfondire il discorso.

     Trattandosi poi di formaggio, cioédi un cibo tradizionalmente destinato alle mense dei poveri, seppur non disdegnato anche in quelle di re e potenti, che raramente veniva utilizzato nella preparazione di altri cibi, anche i ricettari di cucina deluderanno le nostre aspettative. A riprova di tutto ciò basti citare La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, l'opera più famosa dell'Artusi che, fatta eccezione per il parmigiano grattugiato e la ricotta, e gli stranieri "gruviera" e Emmenthal, ignora di fatto i formaggi.

Diventa dunque fondamentale indagare, da un lato, il contesto etnografico di una regione in cui quel formaggio è stato storicamente prodotto oppure si è tipicizzato, facendo ricorso, laddove possibile, anche alla fonte orale, e dall’altro costruirsi una bibliografia di riferimento, di autori che si siano occupati direttamente, o indirettamente, di formaggi in epoche storiche il più possibile lontane dalla nostra.

Per noi è stata, ad esempio, fondamentale Summa lacticiniorum del 1477, redatta dal medico vercellese Pantaleone da Confienza, considerata dagli studiosi la più antica trattazione organica e sistematica conosciuta sui prodotti di derivazione dal latte, non a caso definita da Irma Naso "l'incunabolo della letteratura casearia europea, che si esprime per la prima volta in forma di valutazione pertinente intorno ai singoli prodotti, al loro aspetto esteriore, nonché alle caratteristiche organolettiche, con un'aggettivazione ricca e calzante e con frequenti motivi di comparazione, sia sul piano della qualità dei prodotti in se stessi, sia a livello dei metodi usati per la loro confezione e conservazione".

Un secondo testo che ritengo fondamentale è il lavoro di Anna Maria Nada Patrone, Il cibo del ricco e il cibo del povero, pubblicato dal Centro Studi Piemontesi all'inizio degli anni ottanta. L'autrice è infatti attenta non solo alla dimensione economica e sociale dell'alimentazione, ma fornisce anche una dettagliata catalogazione e descrizione degli alimenti nel medioevo: nel nostro caso abbiamo attinto notizie dalle sezioni di classificazione del formaggio in base alla qualità e alla terminologia (denominazione locale).

La documentazione - e dunque anche la bibliografia - se appare tutto sommato ricca per Medioevo e Rinascimento, si riduce drasticamente relativamente ai secoli XVII e XVIII, per riprendere una sua consistenza nel corso dell'Ottocento, grazie alla ricchezza di informazioni contenute nelle inchieste agrarie, in particolare in quella promossa dal deputato della destra storica Stefano Jacini alla fine degli settanta e redatta (1883) relativamente al Piemonte dall'onorevole Francesco Meardi: all'interno di questa relazione abbiamo la prima vera attestazione "ufficiale" del nostro prodotto con una descrizione abbastanza puntuale delle sue fasi di lavorazione e delle località valligiane pinerolesi in cui è particolarmente rinomato.

Sul versante etnografico siamo stati particolarmente agevolati da una ricca bibliografia di studi, frutto di una tradizione culturale consolidata, dovuta non solo alla presenza di una classe dirigente protestante liberale attenta alla conservazione della propria identità, ma anche ad una capillare diffusione dell'istruzione elementare, che ha favorito la proliferazione di studi sulla cultura alpina e lavori come quelli di Jean Jalla, Marie Bonnet e Teofilo Pons che ci offrono informazioni sulla cultura e sulle tradizioni popolari di queste vallate, ben maggiori e più dettagliate di qualsiasi testimonianza orale raccolta in tempi recenti.

 

Etimologia e antiche attestazioni della parola Sarass

Il termine piemontese seiràs deriva dalle espressioni latine seracium, seracius, seratium, e dal francese sérai, séret o seracée (nella Savoia e nella Svizzera francese si produce una ricotta vaccina o caprina chiamata Sérac) e dall'italiano seracco che, secondo Irma Naso, indicherebbero una specie particolare "di formaggio bianco e compatto, a forma di alto parallelepipedo".

Ovviamente seratium deriva da serum (in dialetto seràs), cioè il siero di latte vaccino, residuo della lavorazione casearia, ovvero la parte acquosa-salina del latte, privata di buona parte del suo grasso, con la quale inizia ancora oggi la lavorazione del sarass. Nelle trattazioni di molti autori il sarass viene spesso confuso con la ricotta: tale confusione è legittima, data la grande affinità di lavorazione dei due prodotti, però, su un piano strettamente etimologico può essere interessante notare che il termine "ricotta" deriva dall'aggettivo latino recoctus, che indica la ricottura del siero "che riscaldato alla temperatura superiore agli 80°C (con eventuale aggiunta di sostanze acide) provoca la coagulazione dell'albumina e della globulina contenute in esso": un etimo che nell'area piemontese ha avuto scarsa fortuna, forse perché proprio nel serum, come vedremo risiedono le peculiarità del prodotto alpino.

La più antica attestazione del sarass è quella contenuta nella Miscellanea Valdostana dello storico Ferdinando Gabotto, ove sono riportati i prodotti del feudo di Chatel-Argent a Villeneuve (Val d'Aosta) relativi agli anni 1267-68: tra essi figura appunto un sottoprodotto del formaggio denominato seras.

Dai conti dell'hotel Sabaudo sappiamo inoltre che per l'Epifania del 1270 il Conte di Savoia ricevette in dono dal castellano di Evian « II seracia putrefacta ». La precisazione "putrefactus", scrive la Nada Patrone, “viene sottolineata probabilmente per indicare il pregio di questo cacio, reso piccante e gustoso da una giusta maturazione (cfr. sub voce « brocius »): probabilmente doveva essere consumato su fette di pane tostato caldo, come ricorda Pantaleone da Confienza per i caci della Valle d'Aosta, della Moriana e della Bresse (cfr. sub voce) o, forse, preparato in « cibaria de pasta et caseo »”

Relativamente alla prima metà del Trecento è poi il medico di origine pinerolese, Giacomo Albini, nella sua opera De Sanitatis Custodia, ad offrirci un'ulteriore attestazione accompagnata anche dalla segnalazione delle buone doti di digeribilità di questo formaggio: “Serum autem vel seracium facilioris est digestionis quam caseus et minus nocet stomacho nec est opilatius.”

         Altre attestazioni bibliografiche meno precise ma comunque relative al XIII e XIV secolo ci vengono ancora dal Gabotto. Interessanti sono inoltre le informazioni contenute in una minuta del notaio di Pinerolo Michele Nassapori (ritrovata in mezzo ai “Protocolli ducali” conservati all’Archivio di Stato di Torino), relativa al XIV secolo, che indica minuziosamente le merci circolanti sul mercato di Pinerolo e tra queste “caseum aut seracium recentem vel veterem”. Una nota assai interessante perché distingue bene il formaggio, dalla ricotta e dal nostro sarass, che denomina appunto “ricotta stagionata”.

 

 

L'area di origine

         Tuttavia è solo con la già citata Summa Lacticiniorum, e dunque alla fine del Quattrocento, che abbiamo le prime precise notizie sulle caratteristiche del seirass e suoi luoghi di origine e di produzione che sono sicuramente da rintracciarsi tra la val D'Aosta e le vallate pinerolesi.

         Secondo Irma Naso l'aumento del numero di capi di bestiame, soprattutto dei bovini, nel tardo medioevo, avrebbe determinato una sovrapproduzione di latte e pertanto una eccedenza dei prodotti di derivazione che avrebbero decretato la diffusione del formaggio come companatico nella pratica alimentare soprattutto dei ceti inferiori, ma, come abbiamo visto anche sulle mense signorili.

         Tra le zone che si distinguevano per un'intensa attività casearia, figura nel trattato di Pantaleone da Confienza la val d'Aosta, alla quale l'autore dedica ampio spazio soffermandosi sulle produzioni di burro e sul gusto dolce e delicato dei caci valdostani, derivante dalla varietà di erbe aromatiche di cui si nutrivano le mandrie.

         Il nostro interesse per la Summa scaturisce però nei passi relativi ai pascoli alpini della zona di Nus, a est di Aosta ove l'autore afferma che venivano confezionati dei seracia, bianchi, magri e compatti, di forma quadrangolare alti circa un metro.

Al di là della forma e delle dimensioni sono le tecniche di fabbricazione che ci inducono a pensare che più che di una ricotta, dovesse trattarsi di un vero e proprio antesignano dell'attuale sarass: infatti, estratto il formaggio, al siero di latte vaccino, veniva aggiunto un certo quantitativo di latte e di siero acetoso, cioè di due giorni, e il tutto veniva messo in un "masgonum", cioè un recipiente di forma imprecisata che doveva fungere da caldaia, fino all'affioramento di alcune parti condensate che costituivano appunto il prodotto desiderato. Al termine della lavorazione veniva poi riposto in appositi stampi e poteva essere conservato anche due anni, dopo essere stato salato oppure consumato fresco e poteva in ogni caso essere consumato stemperandolo in acqua di rose e zucchero.

         Che l'aggiunta di latte sia una vera e propria discriminante del sarass rispetto alla ricotta, sembra esserne consapevole lo stesso Pantaleone, che, da buon assaggiatore ed estimatore di formaggi, rimarca anche la notevole differenza che ne deriva per il palato rendendo questi seracia particolarmente gradevoli. “Il siero lo si fa anche in Italia e nelle regioni piemontesi; ma ritengo non uniscano latte, invero non sono così grandi né di tanta bontà.”

         In altre parole, molto più di quanto abbiano fatto gli studiosi, anche in tempi recenti, il nostro medico riconosce alla ricotta un'ampia diffusione nell'area pedemontana (valli Cuneesi, Chieri, ecc.) ma sottolinea che a Nus, a Coazze e in val Germanasca - citata per la bontà dei suoi formaggi in un altro passo della Summa - la ricotta viene prodotta con questa aggiunta di latte e questo la rende, oltre che più gradevole, diversa da tutte le altre.

 

 

Diffusione del Sarass nell'area alpina nord-occidentale

         Gli studi di E.Rotelli, A.Nada Patrone e di I.Naso sottolineano una forte circolazione di uomini, mandrie e formaggi lungo le Alpi fin dal XIII secolo.

         Alla luce di questo dato possiamo pertanto provare a chiudere il cerchio che abbiamo aperto con l'etimologia della parola seirass. L'area di origine del nostro "cacioricotta" va correttamente collocata all'interno della Savoia: le attestazioni di Pantaleone da Confienza concentrano l'attenzione sulla val d'Aosta, ma l'etimologia della parola non ci deve far dimenticare che analoghe lavorazioni si sono probabilmente registrate sul versante francese e svizzero e vedremo che, almeno stando alle nostre fonti, qualcosa di simile, in qualche vallone della Svizzera deve aver avuto analogo sviluppo.

         Certo è che dalla val d'Aosta questo tipo di lavorazione deve aver preso piede rapidamente anche in altre vallate, almeno in quelle dove la tradizione casearia era radicata da secoli: e le nostre attestazioni all'interno della Summa ci permettono di registrare questo cammino fino in val Sangone (Coazze) e in val San Martino (attualmente val Germanasca). Un percorso credibile se si pensa che la val Germanasca è una valle collaterale della val Chisone che condivide ancora oggi con la val Sangone l'ampio parco dell'Orsiera.

 

Archetipi di conservazione nel fieno

         Alla stagionatura dei formaggi Pantaleone da Confienza dedica un ampio capitolo dal quale apprendiamo che che i locali adibiti alla conservazione dei formaggi erano molti diversi da luogo a luogo: alcuni privilegiavano la maturazione dei formaggi in ambienti secchi, a volte caldi e fumosi; altri in grotte sotterranee umide e buie. Tuttavia per la maggior parte dei formaggi l'immagazzinamento delle forme avveniva in locali luminosi e dotati di una adeguata ventilazione. In questo caso essi - come avviene ancora oggi - erano oggetto di molte cure anche durante la stagionatura: rivoltamenti e trattamenti di superficicie (es. pulitura e oliatura della crosta).

         Al di là di questi dettagli generali la cosa per noi interessante è però che, oltre alla consueta pratica di sistemare le forme su tavole di legno, esisteva anche quella di adagiarle sulla paglia o sul fieno oppure addirittura di avvolgerle nella paglia e poi sospenderle, come spiega Irma Naso "con funi o ancora completamente affondate in chicchi di segale, per evitare una evaporazione esagerata".

         Dunque l'ambiente umido favorirebbe la decomposizione del fieno sul quale venivano adagiate le forme e la crosta risulterebbe ispessita da questi frammenti di fieno.

         La tesi oggi più ricorrente per giustificare la consuetudine di avvolgere i sarass nel fieno è quella di agevolarne il trasporto: queste antiche forme di stagionatura, che hanno una provenienza geografica molto vicina a quella del nostro cacio-ricotta, lasciano invece aperta l'ipotesi che qualche margarius (malgaro) abbia tentato - e solo nelle nostre valli - di riproporre un analogo metodo di stagionatura, da applicare, anziché ai formaggi, proprio al sarass.

 

Nelle leggende: l'apporto dei Saraceni e delle donne

         Sulle origini delle tecniche di trasformazione dei formaggi sembra che, almeno per la val Pellice, sia stato determinante l'apporto Saraceno. La presenza dei Saraceni in questa zona è ampiamente attestata da una serie di toponimi ed è probabilmente all'origine delle leggende relative alla presenza di "un uomo selvaggio" che avrebbe introdotto in valle nuove pratiche casearie. Vincenzina Taccia in proposito parla di una leggenda in cui “si narra che, un tempo, viveva nella valle un uomo selvaggio, fortissimo ed astuto, ma terribilmente timido e schivo di contatti umani. Di notte egli si avvicinava all'abitato per osservare, non visto, una fanciulla di cui si era perdutamente innamorato.

Spiandolo a loro volta i nativi lo videro rivoltare la terra e gettarvi i semi, non solo, ma videro anche come quello trattasse il latte ricavandone burro e formaggi.

Approfittando del suo amore per la fanciulla essi tentarono di catturarlo con l'inganno, ma senza riuscirvi.

Dopo tale insuccesso ascoltarono i consigli di una vecchia donna, che nessuno sapeva donde venisse e che era anch'essa una selvaggia, ma che, evidentemente, intratteneva normali rapporti con gli abitanti del luogo.

Stavolta il selvaggio venne catturato, ma spezzò le ritorte che lo tenevano prigioniero e scomparve.

[…] L'appellativo di "selvaggio", da intendersi evidentemente non nel significato generale della parola, quello di meno civile, in quanto è proprio questo "selvaggio" che conosce l'agricoltura e la tecnica casearia che i nativi ignorano; bensì nell'accezione particolare che potremmo definire "psicologica" che sta a significare una persona asociale, che si tiene in disparte e non partecipa ad alcun gruppo, forse soltanto a causa della sua timidezza, che la leggenda sottolinea.”

         Scorrendo più attentamente l'immaginario leggendario delle valli, lou sarvage, non sembrerebbe essere stato l'unico responsabile delle nuove tecniche di casearie. Le leggende, pazientemente raccolte tra il 1910 e il 1915 in ogni villaggio delle valli da Giovanni Jalla e Maria Bonnet, introducono una significativa variabile secondo la quale sarebbero state le fate, e non "il selvaggio" ad insegnare ai locali i segreti concernenti la lavorazione del latte, per ottenere burro, formaggio e sarass. In seguito, offese dal cattivo contegno dei loro beneficati, - e noi diremo in perfetta simmetria con quanto accadde all'uomo selvatico - li avrebbero però abbandonati senza rivelare altri segreti caseari come, ad esempio, la possibilità di ricavare dal latticello "miele e cera".

         Non è questa la sede per addentrarci in complesse - quanto discutibili - interpretazioni ma sicuramente val la pena provare a trarre almeno due conseguenze da queste leggende.

Innanzitutto che entrambe le versioni indicano un'origine non autoctona dei processi di caseificazione, e testimoniano dunque un rapporto con un'"alterità", cioè con qualcuno venuto dall'esterno: in proposito, se appare convincente l'identificazione del "selvaggio" con qualche saraceno nascostosi nelle caverne di queste vallate, le fate farebbero piuttosto pensare alla presenza di qualche "malgara" proveniente da altre vallate alpine: un'ipotesi che trova un suo fondamento anche negli studi della Nada Patrone che rileva che tra i maestri "formagerii" “potevano ritrovarsi anche donne come quella donna della Bresse, tanto abile a preparare il formaggio, che i suoi prodotti erano largamente ricerca dai buongustai, pur avendo un prezzo più alto di quelli preparati nella medesima località.”

 

Il "ghetto" valdese e i suoi rapporti con l'Europa

I Valdesi si considerano i discendenti della setta dei Poveri di Lione, nata nel 1170 ad opera di Pietro Valdo, un mercante che, dopo aver rinunciato alle sue ricchezze, predica il Vangelo e l'opportunità di una scelta di radicale povertà come momento di penitenza. Valdo e i suoi discepoli saranno presto cacciati dal vescovo di Lione e lo stesso Valdo, dopo essere stato scomunicato, cadrà vittima dell'Inquisizione.

         La vicenda dei Poveri di Lione è stata spesso associata a quella di altre sette ereticali quali, ad esempio, quella dei Catari. In realtà sarebbe più corretto inserirla in quel clima di ritorno alla semplicità che da più parti si esprime nella cristianità dopo l'anno mille, con una condanna più o meno implicita, del potere mondano e temporale della chiesa. In proposito, sia da parte valdese che cattolica gli studiosi hanno recentemente sottolineato la vicinanza che corre tra Valdo, eretico scomunicato e ucciso, e Francesco d'Assisi, proclamato santo: tra la vicenda dei due uomini corrono solo trent'anni; ma sono anni decisivi, in cui la Chiesa cattolica decide di fare i conti con i movimenti pauperistici, scegliendo la strada dell'integrazione a quella dell'espulsione.

         Nell'area del Pellice, Chisone e Germanasca la presenza dei "Poveri" è documentata  verso gli inizi del XIII secolo e le persecuzioni religiose del Tre-Quattrocento sfiorano solo marginalmente queste Valli.

Quando sopraggiunge, la Riforma Protestante trova dunque in queste zone un terreno fertile e il movimento valdese riprende la sua espansione: esce dallo stato di clandestinità e conquista nuove fasce di popolazione, soprattutto tra gli artigiani e la borghesia. Nel 1532, nel sinodo di Chanforan, in val d'Angrogna, i Valdesi aderiscono alla Riforma secondo il credo Calvinista e tale scelta si rivelerà fondamentale per la loro sopravvivenza in queste valli.

         L'espansione protestante fu infatti presto interrotta, dalla metà del XVI secolo, dalla repressione della Chiesa cattolica e dei principi Cattolici: Filippo II di Spagna, Enrico II di Francia ed Emanuele Filiberto di Savoia. L'Europa, per due secoli, sarebbe dunque stata divisa in due schieramenti e, paradossalmente, alla piccola comunità alpina, sarebbe toccata la sorte di essere l'unica isola protestante destinata a sopravvivere in Italia, seppur tra durissime persecuzioni.

         In Francia, con l'editto di Nantes del 1598, fu concessa la tolleranza religiosa alle minoranze protestanti. Tuttavia, nel 1685 Luigi XIV, il "Re sole", abolì l’Editto: per i Valdesi residenti in val Chisone, all’epoca sotto il dominio francese, non rimase che l’alternativa tra l’abiura o l’emigrazione: molti si trasferirono nell’Inverso della Valle, in val Germanasca o in val Pellice (sotto il dominio dei Savoia), ma, l’anno seguente, il principe dello stato Sabaudo, per compiacere il re di Francia, revocò anch’egli ogni forma di tolleranza costringendo così molti Valdesi ad un’abiura formale (nel Settecento ricompariranno improvvisamente molte famiglie valdesi) o all’espatrio. Molti di essi emigrarono in Svizzera: per alcuni fu la meta definitiva ma per molti altri una base per organizzare il ritorno, celebrato nella storia valdese come “Glorioso Rimpatrio”(1689). La spedizione, finanziata e fortemente voluta da tutti i paesi protestanti - primi fra tutti l'Inghilterra e l'Olanda - e, pur tra mille traversie e con pesanti perdite, riuscì a riportare nelle Valli uno sparuto gruppo di Valdesi che riaffermarono così il loro radicamento in queste terre e la loro specifica identità.

Nel frattempo la sconfitta del Re Sole riportava a miti consigli anche i Duchi di Savoia che assunsero nel corso del Settecento una politica meno aggressiva - ma pur sempre intollerante: i Valdesi non potevano, ad esempio, seppellire i loro morti all'interno delle mura dei cimiteri cattolici - che avrebbe progressivamente condotto all'Emancipazione concessa da Carlo Alberto nel 1848.

         Dunque circolazione di uomini, idee e forti legami con l'Europa protestante e in particolar modo e soprattutto in relazione alle tradizioni casearie, con la Svizzera. Risultano allora molto fondate le affermazioni della famiglia Plavan, produttrice di ottimi sarass del fen sull'Alpe del Lazarà nel vallone di Pramollo, che sostiene che la ricetta originale - in particolare quella della bouno - sia stata importata a Riclaretto da un fruitier Svizzero.

         Resta da capire quando. Sicuramente dopo il Rimpatrio, dunque nel corso del XVIII, considerando che è solo in questo periodo che, come abbiamo visto, all'interno delle Valli, si registra una certa stabilità dovuta a maggiore tolleranza. Un'ipotesi credibile se si presta attenzione alla documentazione sulla bouno esibita da Teofilo Pons.

 

Dall'agro alla bouno

         Paul Scheuermaier nella sua monumentale ricerca sul Lavoro dei contadini, pubblicata in Italia nel 1980 ci ricorda che in quasi tutte le zone alpine il siero bollito viene fatto coagulare con l'aggiunta di siero acidificato, chiamato anche "agra" o, nel Piemonte nord-occidentale "buona".

         Sulla ricetta della "buona", nel patois, la bouno aleggiano probabilmente molte "leggende valligiane", quali quella dell'esistenza di una bouno e di una pi bouno, quasi alludere a un agro di prima e di seconda scelta. In ogni caso, da un incontro con i produttori, è emerso che l'agro valdese sia costituito da un'essenza di più di 25 erbe tra cui gemme di larice, ginepro, radice di ortica, timo serpillo - e altre delle quali, per espressa volontà dei produttori, non è stato possibile venire a conoscenza - addizionate con alcune spezie tra il guscio di noce moscata.

         La famiglia Plavan sostiene di custodire gelosamente il segreto giunto dalla Svizzera e tramandato di famiglia in famiglia, da Riclaretto, all'alpe del Lauzoun di Faetto fino all'Alpe del Lazarà nel vallone di Pramollo. Tutto ciò è credibile perché le tre aree indicate sono tra loro confinanti e si confermano, almeno per tutto l'Ottocento aree di produzione del seirass del fen.

         Oltre tutto, la fonte orale - anche se la famiglia Plavan sembra non esserne a conoscenza - trova un puntuale riscontro nell'opera di Teofilo Pons, grande studioso dell'etnografia e della cultura popolare delle valli valdesi, il quale parla di una “famiglia Peyronel, del Troussan di Riclaretto che, almeno per due generazioni, si diede a coltivare con passione questo lavoro di aromatizzazione dei famosi sëras di Riclaretto e di Faetto.

Dall'ultimo di questi Peyronel agricoltori-allevatori, Giacomo, il segreto della bouno fu ad un certo momento svelato ad un suo amico di Pramollo, un Tommaso Ribet, che a sua volta lo rivelò ad un Eli Jahier, i quali migliorarono così i loro prodotti caseari. Il Ribet inoltre, imparentatosi con la famiglia Menusan dei Chiotti, finì per rivelare anche a questa famiglia la ricetta alla base del miracoloso e misterioso miscuglio.[…]

Si confezionava in una capace tinozza, come quelle in uso per fare il bucato, con gli ingredienti seguenti: a) mezza libbra di cannella naturale; b) 24 noci moscate; c) due once di chiodi di garofano; d) un sacco di 4 emine di radici d'ortica di buona qualità; e) una bisaccia (saquetta) piena d'uva acerba e di «cornigles», probabilmente corniole, frutti del corniolo; un pugno di radici di «jeanse», verosimilmente «Panax Ginseng»; g) una mezza dozzina di radici di aigrot, «Imperatoria osthrutium» o «Peucedanum osthrutium»; h) un lievito da 10 a 12 libbre, coperto tutt'intorno da chiodi di garofano; i) mezza libbra di cannella sul lievito e mezzo pugno di chiodi di garofano; k) 13 «bouts de melaise», germogli di larice ?; l) due pugni di ortiche fresche, non ancora fiorite; m) ad ogni pasto due buoni pugni di sale per conservare il tutto; n) ad ogni pasto versarvi un secchio di latte ben purgato; o) si purga il latte con due pugni di uva non matura o delle «cornigles» ( cornouilles ), oppure «acetosella» pestata in modo da dare una pinta e mezza di succo; poi si cola in un pezzo di tela rada, si pesta, aggiungendo un po' d'acqua e colando nuovamente il tutto. Si mettono infine da cinque a sei pinte di vino in un secchio, per fare inacidire il latte che si dève mettere per primo nella bouno, e dopo averlo ben purgato, bisogna colarlo ancora.”

 

Un'attestazione ufficiale: il seirass del fen nell'Inchiesta Jacini

         Il lavoro di Pons sarebbe già di per sé sufficiente a testimoniare una tradizione casearia molto particolare, ma una D.O.P. esige probabilmente un riconoscimento più esplicito dell'esistenza del prodotto. Questa sorta di certificazione ci viene nientemeno che dai risultati raccolti dall'On.Meardi per il Piemonte in occasione dell'Inchiesta Agraria Ministeriale promossa dal deputato della Destra Storica Stefano Jacini. I lavori dell'inchiesta durarono quasi un decennio quindi è verosimile pensare che i dati raccolti qui sotto riportati si riferiscano ai primi anni Ottanta dell'Ottocento. Il nostro cacio-ricotta esiste dunque da almeno 120; ma la cosa più interessante che emerge dalla lettura dei risultati della relazione Meardi è che essi costituiscono un significativo tassello che si inserisce perfettamente nel mosaico che abbiamo tentato fin qui di ricostruire: “Fatte poche eccezioni, il caseificio si trova nella provincia di Torino ancora in uno stato molto primitivo. La produzione del latte ha in tutte e tre le zone una certa importanza; maggiore in quelle delle montagne ove costituisce il principale prodotto del bestiame dei vasti pascoli alpini.[…]

         Nella terza zona delle Alpi, l'industria casearia ha il suo massimo sviluppo; ivi a seconda delle località si fanno burro, formaggi e ricotte, dette in vernacolo seiras che formano oggetto anche di esportazione. […]

         Sull'alpe del Lanzon e di Pramollo si fabbrica una specie di ricotta detta in vernacolo seiras del fen, essa è fatta con una mescolanza di siero dei formaggi, e latte puro, facendolo bollire con un liquido speciale, cioè una soluzione di acidi con aromi, che forma il segreto del fruitier di cui è assai geloso.

         L'ebollizione e gli acidi coagulano il miscuglio di latte e siero, che salato, collocato in stampi, e disseccato, viene avviluppato nel fieno da cui prende il nome. […]

         Dopo essersi tolta al piccolo latte la brosse con cui si fa il burro suddetto, vi si aggiunge il boné (ossia l'azy degli svizzeri, cioè del piccolo latte inacidito contenente in infusione certe erbe aromatiche) e lo si scalda fino ad ebollizione; il piccolo latte si spoglia della materia caseosa che ancor contiene la quale viene a galla sotto forma di grumi biancastri, con cui si fa il seras o sairas dei piemontesi che vien consumato fresco, o salato e fatto essiccare.”

            Alla fine dell'Ottocento il sarass del fen godeva dunque di una tradizione ormai consolidata nelle Valli Valdesi tanto che anche gli storici locali cominciavano a considerarlo un prodotto degno di nota, come in questa breve nota di Pittavino sulla val Germanasca (val S.Martino): “Le industrie consistono essenzialmente nell'estrazione dei minerali, nella confezione del burro e del formaggio. Rinomato in specie quello del fieno o del Laouson”(1908).

Consumato fresco o stagionato come companatico, era destinato a diventare un ingrediente tipico anche della cucina delle valli, tanto che due abili ristoratori e riscopritori di ricette del luogo, quali Walter e Gisella Eynard, non hanno potuto fare a meno di citarlo nella loro accurata raccolta di ricette valdesi.

 

Attività cooperative e consortili

         Nel corso del nostro incontro con i produttori di sarass sono emerse anche alcune indicazioni sulle forme di cooperazione che stavano alla base della vita d'alpeggio.

         Non esistevano particolari tradizioni di festa legate alla produzione del sarass, ma sembra che, almeno fino agli anni '70, il momento di festa coincidesse con la discesa a fondovalle per la vendita del prodotto.

Era in quella circostanza che ci si riuniva per dividerlo. La ripartizione della quota spettante a ciascuno veniva calcolata dopo 8 giorni che la mandria era salita in alpeggio, perché gli animali necessitavano di un periodo di riposo per poter cominciare a produrre a pieno ritmo. E qualcuno, ironicamente, ci ha ricordato che, per il giorno della misura, si assisteva sistematicamente ad una corsa all'accapparamento dei pascoli migliori.

         In val Pellice ogni giovedì veniva caricato il burro per venderlo sui mercati di Torre Pellice e Luserna il giorno successivo. Oltre che destinato al consumo locale, il sarass, durante la vendemmia, veniva venduto in quantità notevole nelle aziende vitivinicole. Secondo la testimonianza di alcuni produttori sembra esso venisse avvolto nel fieno solo quindici giorni prima della vendita.

         Vediamo un po' più in dettagli come funzionava la struttura consortile della partìa, secondo la ricostruzione di Teofilo Pons: “Allo scopo di sfruttare nel modo più redditizio i vari importanti alpeggi della val Pellice, erano sorte le cosiddette partìe, le quali costituivano un tipo particolare di società cooperativistica, nata fra i gruppi familiari che conducevano il loro bestiame nei singoli alpeggi, per sfruttarli nel modo più economico possibile. In queste partìe si metteva insieme il bestiame di varie famiglie quando si saliva all'alpe. Dopo la prima settimana si verificava il peso giornaliero del latte prodotto dalle singole famiglie, verifica che si ripeteva a metà stagione e prima di ridiscendere il bestiame. Alla fine della stagione si facevano i conti generali, si deducevano le spese varie dell'alpeggio e di chi aveva lavorato per i partitati ed il ricavato veniva diviso fra i singoli e distribuito secondo le convenzioni prestabilite, sia in danaro sia in burro e formaggio.

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Bibliografia

 



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